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  lunedì 29 agosto 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Gaza: il coraggio di Israele da solo non può cambiare le prospettive

di Guido Bedarida

Ariel Sharon, il Primo Ministro israeliano, ha tenuto fede all'impegno preso: ha fatto uscire da Gaza tutti i residenti israeliani, ed ha fatto in modo che ciò fosse fatto nei tempi stabiliti ed in modo esemplare sia da parte dei residenti che dell'esercito, deludendo ancora una volta i suoi numerosi detrattori a livello internazionale che gli hanno fatto mancare prima il loro appoggio ed ora anche solo il loro apprezzamento.
Il leader israeliano, pur conscio che un simile gesto fatto da altri sarebbe passato alla storia, sa che non deve aspettarsi né aiuti né il riconoscimento da parte del resto del mondo che adesso debbano essere necessariamente i palestinesi, ancora più chiaramente, a dover fare finalmente qualcosa di concreto per la pace.
La situazione è analoga a quella successiva al completo ritiro dal Libano nel 2000 dal quale ad Israele non derivò alcun vantaggio in termini politici né strategici: le incursioni di Hezbollah (il gruppo che la L'Unione Europea continua a non considerare terroristico) e gli attacchi missilistici si intensificarono e continuano tuttora, la Siria poté continuare a mantenere il controllo militare del paese (fino a ieri) e ad oggi ne mantiene quello politico; ancora Hezbollah, che recentemente è stata inserita tra le forze del governo libanese, rivendica adesso perfino alcune zone di territorio da sempre israeliano e tutto ciò è avvenuto ed avviene senza che l'opinione pubblica internazionale abbia nulla da eccepire.

Sharon, semplicemente, ha fatto quello che riteneva necessario fare, ha messo in atto le "dolorose concessioni" nonostante significassero il rischio di pericolose contrapposizioni tra i cittadini del suo paese, di forti tensioni politiche, anche se questo significava portare via uno ad uno gli abitanti che dovevano abbandonare le loro case ed il loro lavoro, dolorosamente sradicati dalla loro quotidianità, sradicati dal sogno di poter vedere luoghi sacri della Bibbia come parte integrante di Israele moderna e non come parte del territorio sotto il controllo di chi uccide donne e bambini con attacchi terroristici, tiri di cecchini e colpi di mortaio.
Lo ha fatto anche se ciò implicava mettere a rischio la propria incolumità e dover accettare il ribaltamento di tutte le regole:
non imporre le scelte del vincitore ai perdenti (specie dopo una guerra in cui si è stati aggrediti), né trattare la pace in condizioni paritarie con gli sconfitti, ma arrivare al paradosso di fare concessioni territoriali senza poter discutere di pace e senza ricevere in cambio assolutamente nulla, neppure il disarmo dei gruppi terroristici palestinesi o perfino solo l'impegno da parte dell'Autorità Nazionale Palestinese a farlo. Sharon ha fatto una scelta difficile, ma ha scelto quello che pare essere il minore dei mali, un passaggio difficile, che però lascia immutati i rischi per il suo paese, e che potrebbe essere completamente inutile perché non tiene conto del fatto che ad Israele servono atti all'apparenza meno coraggiosi ma più lungimiranti.

Molti palestinesi, stando almeno alle interviste raccolte dai quotidiani israeliani, pensano che quanto accaduto e visto in questi giorni in TV sia stata solo una messa in scena, che lo sgombero fosse preparato ad arte da governo e "coloni" ed attuato al solo scopo di suscitare l'emozione e le simpatie del mondo.
In quello che gli psicologi chiamerebbero fenomeno di "proiezione" i palestinesi mostrano di applicare ad Israele quello che sarebbe stato il loro modo di agire in circostanze simili: preparare l'ennesima commedia, attività nella quale sono maestri (basta ricordare il filmato del famigerato funerale, con ampio seguito di congiunti piangenti, del giovane preteso morto e che si rimise in piedi da solo una volta caduto accidentalmente dall'improvvisata bara sulla quale veniva trasportato, uno dei tanti episodi di propaganda palestinese ad uso e consumo dei compiacenti media occidentali finito per una volta in beffa).
Ed è significativo che tali commenti palestinesi ignorino il dato di fatto che comunque rimane: che quella di esercito e residenti fosse o meno una commedia (ed è stata una cosa terribilmente seria e vera) la zona di Gaza è stata sgomberata e presto sarà sotto il controllo completo dell’ ANP; un evento che adempie ad una delle loro principali richieste pare non aver suscitato, nell'opinione pubblica palestinese, alcun cambiamento di prospettiva politica né di interpretazione del futuro ed anzi, analogamente al caso del Libano, l'Autorità Nazionale Palestinese ha già pronta la lista delle ulteriori concessioni che esigerebbe ancora da Israele.

Ma può bastare all'ANP il controllo nominale del territorio che, a causa dei gruppi armati, stentava ad avere nelle zone sotto la propria autorità già prima di Gaza? Questo è sufficiente alla nascita di una economia capace di dare a Gaza prospettive che avviino una struttura economica reale non dipendente dai generosi fondi e dalle elargizioni internazionali che si perdono nei mille rivoli della corruzione e nell'acquisto di armi per il terrorismo?
Può bastare questo per evitare la nascita dell'ennesima satrapia mediorientale ?
E che paese può nascere dalle premesse di una sorta di pulizia etnica che il mondo ha chiesto senza vergogna a Sharon imponendo agli israeliani che tutti i civili di religione ebraica dovessero andarsene dalle terre del futuro stato palestinese?
Questo ritiro non risolve né avvia a soluzione i problemi dei palestinesi così come non pare in grado di avviare a soluzione quelli di Israele. Può il ritiro da Gaza contribuire veramente a risolvere il problema principale per Israele, quello della sicurezza? I battaglioni resisi disponibili perché non più utilizzati nella difesa delle comunità in Gaza, il forte appoggio a Sharon da parte dell'opinione pubblica interna insieme a qualche lode dall'estero possono garantire il paese dalle minacce esterne?
Come pare insegnare il precedente libanese con Hezbollah è probabile che Gaza divenga dominio delle forze terroristiche che l'ANP non vuole o non riesce a disarmare e che gli attacchi ad Israele si moltiplichino; l'idea degli estremisti di cancellare l'esistenza di Israele dalle mappe geografiche rimane al vertice degli obbiettivi non solo dei terroristi (galvanizzati da questo ritiro che si attribuiscono come conseguenza dei loro attentati e dei loro attacchi) ma anche di Siria e soprattutto dell'Iran che, stanti così le cose, avrà a breve la bomba atomica.
Ultimo, ma non meno importante, il fatto che l'opinione pubblica mondiale si dimenticherà prestissimo di quanto Israele ha concesso (e di come lo abbia fatto) e continuerà a fare pressioni senza ripagare Israele con alcuna garanzia o contropartita.

Sharon, ulteriormente supportato dal positivo esito di questa ennesima difficilissima prova, crede che la forza di Israele e dei suoi pochi alleati sia sufficiente a superare i pericoli che incombono sul paese e questo nonostante debba apparire sempre più chiaro in particolare a lui, ma non solo a lui, che neppure la famosa "Road Map", il piano statunitense per risolvere la questione palestinese, sia sufficiente a scongiurare le minacce; e la Road Map non è sufficiente per una semplice constatazione di fatto: non ha in sé né la forza né la persuasività per poter essere applicata.
Se questa fosse davvero una risposta efficace ed un mezzo utile i palestinesi la seguirebbero perché avrebbero più convenienza in essa che non nel proseguire l'attuale politica doppiogiochista frutto del loro potere corrotto che garantisce finanziamenti e riceve larghissimi appoggi internazionali; ed anche Israele non sarebbe costretta a ritiri unilaterali come quello di Gaza contemplato nella Road Map in altri termini.
Ma il limite maggiore del piano americano è la prospettiva: esso si propone di creare due Stati ma non si propone di creare i mezzi e la convenienza per far nascere la democrazia tra i palestinesi né di garantire lo sviluppo del loro futuro stato nazionale né di fornire ad Israele sicurezza reale.

L'unica possibilità di risolvere la situazione è quella di impostare la soluzione con prospettive di lungo periodo che non vedano la creazione di stati nazionali come termine del processo politico ma che puntino alla realizzazione della democratizzazione, allo sviluppo economico ed alla integrazione politica come reale ed unica garanzia di pace.
È una prospettiva non raggiungibile tramite la guida di singoli paesi o di organismi corrotti ed ostaggi delle dittature quali l'Onu, quanto piuttosto tramite strutture di integrazione politica, sociale ed economica.
L'Unione Europea, che al di là del suo nome è un organismo politico e non una semplice amministrazione territoriale, può farsi carico di una piano lungimirante che veda nell'integrazione di Israele, fronte avanzato della democrazia in medio oriente, la garanzia di stabilità dell'area.
E’ necessario prendere finalmente atto di condividere con Israele non solo valori ma soprattutto, comunque vadano le cose, il futuro di fatto comune in cui l'integrazione di Israele fornirebbe il fondamentale vantaggio di poter effettivamente governare e dominare gli eventi indirizzandoli nella direzione migliore e non di subirli evitando il rischio, che è quasi una certezza, delle gravi ed imprevedibili conseguenze che il forzato isolamento israeliano comporterebbe. Tralasciando i vantaggi economici che ne deriverebbero per l'intera UE (Israele è un paese in forte crescita ed un polo tecnologico di livello mondiale) dal punto di vista politico ne verrebbe immediatamente che sia l'Iran e la Siria difficilmente potrebbero considerare Israele obbiettivo delle loro mire belliche e ciò permetterebbe di disinnescare uno dei maggiori pericolo di conflitto oggi presenti.
Per Israele far parte dell'Unione vorrebbe anche dire poter fare concessioni ai palestinesi trattando con questi ultimi non più come singolo stato ma come Unione Europea (con tutte la legislazione ed in particolare le regolamentazioni e le garanzie annesse) ed annullare qualsiasi pericolo derivante dal presunto "diritto al ritorno", il diritto che pretenderebbero i palestinesi (quelli che ne uscirono nel '48) di tornare in Israele con i loro discendenti (e che la propaganda dell'ANP vorrebbe intorno ai 6 milioni di persone, numero che di fatto disintegrerebbe lo Stato d'Israele). I palestinesi, sotto le pressioni internazionali e consci dei vantaggi insiti nel progetto, potrebbero scegliere prima la strada della democrazia e della federazione magari con la Giordania e poi l'ingresso nella UE.
Scegliere l’ingresso nella UE non è un grande gesto, più semplicemente è politica, la scelta lungimirante che Israele ed Europa devono essere capaci di analizzare seriamente, pianificare ed attuare: serve la capacità di leggere gli eventi e governarli con la soluzione in grado di ribaltare le prospettive prima che si arrivi a situazioni di pericolo in cui non esiste più possibilità di scelta.